Mi trovo a riflettere su quanto il mondo dei videogiochi stia cambiando. Da quando ero giovane, i videogiochi si sono evoluti in qualcosa di molto più interessante. Oggi, più che mai, offrono esperienze che non solo intrattengono, ma ci spingono a riflettere su temi complessi, come la libertà di espressione, la responsabilità delle nostre azioni e la nostra relazione con le intelligenze artificiali.

È curioso come, mentre la società discute di cancel culture e limiti alla libertà di parola sui social network, i videogiochi abbiano già costruito mondi dove queste domande sono concrete. Forse, come accade con la fantascienza, i game designer stanno anticipando dibattiti che diventeranno globali.

Giocando a The Last of Us Part II, una delle esperienze più coinvolgenti degli ultimi anni, ho avuto una sorta di illuminazione. La storia è cruenta, violenta, ma allo stesso tempo incredibilmente umana. Ci fa confrontare con la vendetta, con la perdita, e, soprattutto, con la tolleranza e l’intolleranza. Ellie e Abby sono due personaggi che, purtroppo, non sono né buoni né cattivi, ma semplicemente vittime delle loro circostanze. E mentre mi trovo a vivere la loro vendetta, mi chiedo: dove finisce la libertà di esprimere il nostro dolore, e dove inizia la responsabilità di non infliggere quello stesso dolore agli altri?

Neil Druckmann, direttore del gioco, ha detto in un’intervista: “Volevamo che i giocatori si sentissero a disagio. La violenza non dovrebbe essere gratificante”. E infatti, mentre premevo il grilletto, mi chiedevo: quanti di noi, nella vita reale, agiscono per rabbia senza pensare alle conseguenze?

E poi c’è Overwatch, dove tutto sembra essere incentrato sull’azione frenetica e sulla collaborazione, ma dove i giocatori spesso dimenticano che dietro quella maschera di pixel c’è una persona. I sistemi di moderazione nel gioco cercano di combattere il razzismo, l’omofobia e ogni forma di discriminazione, ma la realtà è che molto spesso questi sistemi non sono abbastanza. In un certo senso, ogni insulto che ricevo mentre gioco è come se fosse un atto di violenza verbale digitale, uno strappo alla convivenza civile che i giochi multiplayer dovrebbero promuovere. Eppure, anche in quel caos, c’è qualcosa di rivelatorio: la responsabilità del gioco online non è solo degli sviluppatori, ma anche nostra, come membri di una comunità. Siamo noi a decidere se accettare un linguaggio tossico o se trasformarlo in qualcosa di costruttivo.

Uno studio dell’Università di Stanford ha dimostrato che i giocatori esposti a comportamenti tossici online tendono a ripeterli, creando un circolo vizioso. Forse servono non solo ban automatici, ma anche “premi” per chi gioca in modo positivo, come fa *League of Legends* con il sistema degli onori.

Pensando a questi giochi, mi torna in mente un altro titolo, BioShock Infinite, che affronta il tema del razzismo e delle disuguaglianze sociali con una forza straordinaria. In quel gioco, la violenza non è solo un meccanismo di gameplay, ma diventa una riflessione sociale e politica, un atto che ci interroga sulla storia, sul potere, e su come quest’ultimo venga abusato. La libertà di parola diventa un concetto ambiguo in un mondo che, in un certo senso, è stato costruito su una base di discriminazione e sopraffazione. E allora, mentre gioco, mi chiedo: la libertà di esprimere idee ha davvero un valore se queste idee non rispettano la dignità di tutti?

Columbia, la città volante del gioco, è un incubo distopico che ricorda il suprematismo bianco e i culti religiosi estremisti. Eppure, nel 1912 (l’ambientazione del gioco), quelle idee erano comuni. Quanto è facile, oggi, credere di essere dalla parte “giusta” della storia, senza accorgersi che stiamo replicando gli stessi errori?

In giochi come Detroit: Become Human, dove le IA sono al centro della trama, il confine tra libertà e oppressione si fa ancora più sottile. Le macchine sono trattate come esseri inferiori, private della loro libertà, eppure sono loro a chiederci di essere riconosciute come esseri senzienti. Ogni scelta che faccio nel gioco – ogni interazione con queste IA – diventa una riflessione sul nostro rapporto con l’intelligenza artificiale e sulle implicazioni morali delle nostre azioni. Se un giorno le IA dovessero sviluppare una coscienza, come dovremmo trattarle?

E poi ci sono i giochi che mi pongono di fronte a un altro tipo di interrogativo, come Spec Ops: The Line, che mi costringe a riflettere sulla violenza psicologica e sulle sue conseguenze. Ho pensato spesso a come, nei videogiochi, la violenza venga spesso ridotta a meccanica, un mero strumento di progresso. Ma in Spec Ops, la violenza non è mai gratuita: ogni azione ha un peso, ogni sparatoria una riflessione sulla moralità delle nostre scelte. Il gioco ci invita a mettere in discussione le nostre azioni, sia nel mondo virtuale che in quello reale. Fino a che punto siamo disposti ad arrivare per difendere una causa, e a che prezzo?

È ironico che molti giocatori, incluso me, abbiano completato *Spec Ops* sparando a tutto senza pensare, solo per scoprire alla fine che il gioco ci stava giudicando. Quante volte, nella vita reale, agiamo senza riflettere, per abitudine o pressione sociale?

Mentre rifletto su questi giochi, mi viene in mente anche il recente fenomeno di Apex Legends, un gioco dove la libertà di espressione è spesso il motore di infinite discussioni tra i giocatori. Ma anche qui, la comunità si trova a fare i conti con il comportamento di alcuni utenti che abusano della loro libertà di parola, trasformandola in bullismo o insulti. I moderatori fanno del loro meglio per arginare questo fenomeno, ma la verità è che è un problema che non si risolve mai davvero. La libertà di espressione va bene, ma la mancanza di rispetto non è mai giustificabile.

Alcuni studi suggeriscono che l’anonimato nei giochi online aumenti la tossicità. Eppure, in *Apex, molti streamer famosi giocano con nickname riconoscibili e mantengono un comportamento esemplare. Forse la soluzione non è nascondersi, ma costruire identità digitali di cui essere fieri.]

Quindi, quale è la lezione che ne traggo? La libertà di espressione, nei videogiochi, è qualcosa che dobbiamo sempre proteggere, ma con una consapevolezza: la responsabilità che essa comporta. È fondamentale che, come giocatori, creiamo spazi dove possiamo confrontarci, ma anche rispettarci. In un mondo sempre più digitale, la responsabilità di come usiamo la nostra voce – anche se solo nei pixel di uno schermo – è qualcosa che non possiamo più ignorare. E forse, proprio nei giochi che ci pongono di fronte alle nostre azioni, possiamo imparare qualcosa di più su noi stessi e sugli altri.

I videogiochi sono come il mito della caverna di Platone: ci mostrano ombre di conflitti reali, e sta a noi riconoscerli. Forse, un giorno, guarderemo indietro e realizzeremo che questi mondi virtuali ci hanno insegnato a essere più umani.]

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In fondo, i videogiochi sono più di un passatempo. Sono uno specchio della nostra società, un laboratorio di etica, un campo di battaglia dove le nostre scelte, anche quelle più piccole, hanno un impatto. E ora, più che mai, è importante che quelle scelte siano guidate dalla consapevolezza che la libertà, quando abusata, può diventare una prigione. La vera libertà si trova solo nel rispetto reciproco, nel riconoscimento che anche nel mondo virtuale, le parole e le azioni hanno il loro peso.